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SALVE, SONO LA DOTT.SSA RITA MANZO, PSICOLOGA E PSICOTERAPEUTA SISTEMICO-RELAZIONALE. RICEVO TUTTI I GIORNI PREVIO APPUNTAMENTO TELEFONICO AL NUMERO 3333072104. LO STUDIO SI TROVA A CALVI RISORTA (CE), IN VIA GUGLIELMO MARCONI N.30. SI HA LA POSSIBILITA' DI USUFRUIRE DELLA TERAPIA PSICOLOGICA ANCHE IN MODALITA' ONLINE. SERVIZI OFFERTI: PSICOTERAPIA INDIVIDUALE, DI COPPIA E FAMILIARE, CONSULENZA E SOSTEGNO PSICOLOGICO.

martedì 31 luglio 2012

ANORESSIA NERVOSA

L’anoressia è un disturbo del comportamento alimentare che consiste in una alterata percezione dell'immagine corporea. Chi soffre di anoressia ha un’immagine distorta del proprio corpo che percepisce costantemente in condizioni di sovrappeso, quasi come fosse un nemico da combattere e da tenere sempre sotto controllo, ed è dominato da un’intensa paura di ingrassare, anche in presenza di un evidente sottopeso.
CRITERI DIAGNOSTICI
Nel DSM-IV vengono descritti i criteri diagnostici clinici e psicopatologici che consentono di porre diagnosi di anoressia. Secondo il DSM-IV la diagnosi si effettua in presenza dei seguenti criteri:
-Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura.
-Intensa paura di acquisire peso o diventare grassi, anche quando si è sottopeso.
-Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità dell’attuale condizione di sottopeso.
-Amenorrea, cioè assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi.
Sebbene alcuni possano rendersi conto della propria magrezza, tipicamente i soggetti con questo disturbo negano le gravi conseguenze sul piano della salute del loro stato di emaciazione. Il soggetto giunge all'osservazione clinica, sotto pressione dei familiari, quando la perdita di peso si fa marcata.
SOTTOTIPI ANORESSIA
Il DSM-IV specifica due sottotipi di anoressia:
Con restrizioni: il soggetto si limita a ridurre l’assunzione di cibo senza adottare condotte espulsive come vomito, purganti, diuretici e senza abbuffate.
Con abbuffate/Condotte di eliminazione: quando oltre alla riduzione dell’assunzione di cibo sono presenti abbuffate e condotte di eliminazione come vomito, purganti, diuretici.
COME SI MANIFESTA LA PERDITA DI PESO?
Le persone affette da anoressia di norma perdono peso diminuendo la quantità di cibo consumata. In molti casi la nutrizione viene ridotta a meno di 1.000 calorie al giorno. La maggior parte evita di ingrassare o assumere cibi ipercalorici ed elimina in parte o del tutto il consumo di carne. La dieta degli anoressici si basa quasi completamente su vegetali a basso contenuto calorico come lattuga, carote, ma anche yogurt. 
Predominano condotte ossessive legate al cibo, ad esempio nascondimento, sminuzzamento, rifiutano di mangiare in presenza di altri, cucinano per gli altri complessi piatti che non mangiano. Vi è un eccessivo investimento sul cibo, il soggetto ne parla sempre. Il cibo ed il peso diventano un’ossessione, infatti le persone affette da questa patologia non fanno altro che pensare al loro prossimo pasto.
Si comincia spesso anche a praticare una serie di esercizi fisici nel tentativo di bruciare calorie ma è praticamente impossibile per l’anoressico trovare soddisfazione nel proprio aspetto fisico che nonostante tutti i sacrifici non raggiunge mai la forma desiderata. Un aspetto spesso presente nelle anoressiche è il lavarsi fino a scorticarsi e la fissazione di mandare via lo sporco.
Quando sono molto sottopeso, molti individui possono presentare sintomi depressivi, come umore depresso, ritiro sociale, irritabilità, insonnia e diminuito interesse sessuale. Possono soddisfare i criteri per un episodio depressivo maggiore. Molti sintomi depressivi possono essere secondari alle carenze alimentari e alla perdita di peso. L’eventuale presenza di un disturbo dell’umore associato deve quindi essere valutata dopo il parziale o totale recupero del peso corporeo.
Altre manifestazioni sono: disagio nel mangiare in pubblico, sentimenti di inadeguatezza, bisogno di tenere sotto controllo l’ambiente circostante, rigidità mentale, ridotta spontaneità nei rapporti interpersonali.
LE CAUSE DELL’ANORESSIA
Le cause di questa malattia possono essere molteplici. Nel tentativo di risalire alle origini dei disturbi dell’alimentazione sono state prese in considerazione la personalità, il bagaglio genetico, l’ambiente e le  caratteristiche biochimiche dei pazienti.
Dal punto di vista psicologico l’anoressia mentale può essere vista come una difesa nei confronti di un ambiente familiare iperprotettivo e soffocante. Spesso l’anoressica non riesce ad esprimere i suoi disaccordi all’interno del nucleo familiare, dove ogni iniziativa o cambiamento è vissuto come un tradimento, e utilizza il cibo come arma per poter rivendicare il suo “non detto”. Il cibo allora può trasformarsi nel rifiuto di crescere, nel rifiuto di essere donna, di assomigliare alla propria madre o alle proprie sorelle, nel rifiuto d’affetto. Si è notato inoltre che modificazioni degli equilibri familiari, come perdite affettive e separazioni, possono essere la causa scatenante di questa malattia. 
Altre cause che portano allo sviluppo di comportamenti anoressici possono essere la sensazione di non poter raggiungere i propri obiettivi per problemi di peso e apparenza, la sensazione di essere sottoposti a un eccesso di pressione e di aspettativa o di essere fortemente trascurati dai propri genitori, difficoltà ad essere accettati socialmente e nella propria famiglia, situazioni particolarmente traumatiche, come ad esempio violenze sessuali, drammi familiari, comportamenti abusivi da parte di familiari o persone esterne. 
INTERVENTO TERAPEUTICO
Negli anoressici il rapporto con la realtà è alterato per quanto riguarda la percezione dello schema corporeo, ma generalmente conservato per altri aspetti. Sarebbe perciò opportuna una terapia psicologica atta a supportare l’Io del soggetto per rafforzarlo, definirlo, strutturarlo maggiormente, migliorare la percezione e l’investimento nella realtà e favorire un processo di rielaborazione delle tematiche centrali del disagio. Se si considera che l’anoressica riduce ed esaurisce la sua esistenza intorno a due tematiche centrali concernenti il corpo e il cibo, appare evidente l’importanza di sviluppare altre forme di interesse e di investimento sul reale e promuovere un’apertura verso l’affettività. 
Un approccio terapeutico condiviso è quello sistemico familiare. L’obiettivo è quello di favorire lo svincolo e l’individuazione dei membri del sistema familiare invischiato, promuovere la circolarità di una comunicazione chiara, rafforzare la figura paterna se è periferica, sostituire le regole disfunzionali con quelle funzionali e gestire costruttivamente la crisi per affrontare un nuovo ciclo vitale. Un ostacolo al trattamento dell’anoressia consiste nel fatto che nella maggior parte dei casi il soggetto non riconosce il proprio disturbo e quindi è scarsamente motivato al lavoro terapeutico.  
                                                              Dott.ssa Rita Manzo

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lunedì 30 luglio 2012

LA NASCITA DEL PRIMO FIGLIO: EFFETTI POSITIVI E NEGATIVI SULLA COPPIA

In seguito alla nascita del primo figlio la coppia si trasforma diventa famiglia e acquisisce un nuovo legame, quello genitoriale, che durerà per sempre: si può smettere di essere coppia ma si sarà madre e padre del proprio bambino per sempre. E’ importante in questa fase della vita che i partners creino dei confini chiari tra quella che è la relazione di coppia e quella che sarà la relazione genitoriale, così che ciascun sottosistema emozionale abbia un suo spazio. 
L'arrivo di un bambino crea molto spesso scompiglio nella coppia, anche se è stato cercato e desiderato. Il bambino calamita le attenzioni e le energie di entrambi, nessuno è escluso. 
Gli effetti che la nascita di un figlio ha sulla coppia possono essere sia positivi che negativi. I neogenitori possono sentire accrescere il senso di competenza e di fiducia reciproca, e sentirsi uniti da un compito comune che aumenta la coesione familiare e la stima nel proprio ruolo. C’è da dire però che le ingenti cure che il bambino richiede, potrebbero aumentare le tensioni e i motivi di conflitto tra marito e moglie. 
Nelle primissime settimane dopo la nascita, la novità e la vicinanza di parenti e amici, rendono meno pesanti i compiti di cura e le responsabilità nei confronti del bambino. 
Dopo i primi 3 mesi, invece, diminuiscono la soddisfazione coniugale, il tempo che i due partner passano insieme in attività piacevoli, il sentimento di “amore”, cioè subiscono un declino gli aspetti “romantici” della relazione. Le donne, in particolare, manifestano maggiori livelli d’insoddisfazione e denunciano la difficoltà di trovare un po’ di tempo per sé, l’aumento di tensioni coniugali, la stanchezza. Per far fronte ai cambiamenti che comporta la nascita di un bambino, ciascuno dei due coniugi deve ridefinire i propri spazi e le proprie funzioni in modo da crearne altri per il neonato, deve ridimensionare la propria vita personale e sociale in funzione degli orari e delle esigenze del bambino, adattare a lui i propri ritmi di vita, organizzare una divisione del ménage domestico, organizzare il tempo libero e i rapporti sociali, e ridefinire l’impegno lavorativo. Tutto ciò ha esito positivo soltanto se ciascun membro della coppia ha stabilito con il partner una relazione fondata sull’intimità e sull’empatia ed ha raggiunto un buon grado di differenziazione e svincolo dalle proprie famiglie di origine. 
Una buona relazione tra i genitori è molto importante per l’educazione e la socializzazione dei figli e per il loro sviluppo emotivo. I genitori dovrebbero essere in grado di fornire al bambino fin dalla nascita, quell’affetto e quelle cure che lo renderanno sicuro nelle relazioni future e nell’esplorazione dell’ambiente e faciliteranno lo sviluppo di un’immagine di sé degna di amore e attenzione. I genitori devono imparare ad essere per il bambino una guida e allo stesso tempo una base sicura a cui ricorrere nei momenti di difficoltà. Nella costruzione della relazione genitoriale ciascuno dei due genitori si deve confrontare con la propria storia passata, con il suo essere stato figlio e con il tipo di attaccamento e relazione che ha stabilito a sua volta con i propri genitori. Un genitore che da bambino ha potuto contare su legami di attaccamento stabili e sicuri sarà in grado più facilmente di riportare queste stesse modalità relazionali con i figli, al contrario di quello che avendo vissuto relazioni evitanti sarà meno predisposto ad esprimere le proprie emozioni e a entrare in contatto con i bisogni affettivo-emotivi del figlio.

In seguito alla nascita del proprio figlio la coppia deve trovare nuovi modi di comunicare e gestire i conflitti, acquisire strumenti e risorse per un adeguato rapporto col partner: pazienza, ascolto, comprensione e comunicazione. Ciò non è semplice, e in questo non aiutano la stanchezza e la tensione. E’ bene però darsi del tempo, non pretendere da sè stessi e dal partner l'impossibile. 
Ci può essere la possibilità di stare nel cambiamento, di sbagliare, senza giudizi e recriminazioni. L'importante è discutere in modo costruttivo trovando così nuove opportunità di compromesso. Non recriminare ma chiedere. Non esigere ma domandare. Non pretendere ma comunicare. Pian piano troverete un nuovo equilibrio e riemergerete dal caos, più forti ed emotivamente arricchiti. In questo possono dare un valido aiuto i nonni. Il compito della generazione più anziana è quello di riconoscere e sostenere, anche se con le opportune distanze, i propri figli nel loro ruolo di genitori e partecipare alla vita dei nipoti assumendo la nuova identità di nonni, senza invadere il campo e sostituirsi ai neogenitori, diventando così una valida risorsa nel facilitare ai propri figli l’assunzione del ruolo genitoriale e nell’aiutarli a prendersi cura del nipote nei momenti di bisogno.
Dott.ssa Rita Manzo
Psicologa, Psicoterapeuta
Calvi Risorta (CASERTA), Santa Maria Capua Vetere (CE), Napoli (NA)
Per info. e contatti: 3333072104

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mercoledì 18 luglio 2012

LUTTO FAMILIARE


La famiglia è il luogo naturale dove si elabora una perdita. Il verificarsi di un lutto può strutturare e rivoluzionare l’intero assetto familiare e le relazioni tra i suoi membri. Questo nuovo assetto può essere più o meno funzionale alla risoluzione del lutto e quando non lo è determina una serie di sofferenze psicologiche.
Nei casi di perdita prematura, improvvisa o inattesa il lutto è più difficile da elaborare perché il dolore legato alla perdita coglie i familiari di sorpresa, non ci si è potuti in qualche modo “preparare” alla morte del proprio caro, il legame si spezza in un attimo, senza preavviso, lasciando un vuoto incolmabile ed  eventuali questioni in sospeso.
A volte il dolore è così grande e ingestibile che sembra impossibile parlarne con gli altri membri della famiglia così, spesso, ogni familiare lo vive a modo suo in solitudine, e il processo di elaborazione diviene più difficoltoso perché non c’è possibilità di condividere e darsi sostegno reciproco. La famiglia vive così una fase di stallo e ognuno dei suoi membri si sente solo con la propria angoscia.
Risorsa fondamentale della famiglia è la capacità comunicativa rispetto alla profondità del dolore che da a tutti la possibilità di confrontarsi con il lutto degli altri membri. Il livello di coesione tra i membri è una delle principali variabili che orientano l’esito del processo di elaborazione del lutto, insieme alla qualità dell’organizzazione familiare, la sua flessibilità o rigidità.


L’autore sistemico Murray Bowen (1979) nelle ricerche sulla sua "Family Systems theory" include lo studio del comportamento della famiglia di fronte a un lutto e rimarca l'esistenza di un'onda di shock emozionale che si diffonde intergenerazionalmente occasionando disturbi psicopatologici nei suoi integranti, che spesso ne ignorano l’ eziologia.

Un altro autore sistemico é Norman Paul che ha molto insistito su come lutti irrisolti nel passato familiare possono avere un grande impatto nelle fasi transizionali del ciclo vitale, specialmente quando si devono affrontare cambiamenti e perdite.

Bowlby e West (1983) hanno identificato sei risposte disfunzionali che la famiglia può sviluppare nello sforzo di trovare un nuovo equilibrio in seguito al lutto: 
1)Adozione di un simile stile di affrontare la perdita, idealizzando la persona scomparsa o identificandosi con la stessa. Un membro dominante può condurre gli altri verso questo scopo.
2)Chiusura della frontiera familiare provocando invischiamento con iperprotettività che ostacola l’elaborazione  individuale del lutto.
3)Promozione del segreto familiare, proteggendo “l’onore familiare”.Frequente nei casi di suicidio.
4)Promuovere ruoli inadeguati,come la parentification di un bambino dopo la morte di un genitore.
5)Riattivazione transgenerazionale di lutti irrisolti,o incompleti di membri della famiglia di origine.
6)Dipendenza di rituali religiosi o tradizioni culturali in famiglie miste.

Raphael (1984), descrive sette risposte familiari basate su miti o tradizioni che influenzano il lutto:
1)Famiglie in cui la morte è tabù. Il silenzio è il modus operandi. Succede spesso in famiglie d’origine in cui ci sono lutti irrisolti.
2)Famiglie con abituali capri espiatori in cui si cerca sempre di colpevolizzare per mantenere un rigido controllo.
3)Famiglie in cui si evita l’intimità per paura di perdere il controllo emozionale.
4)Famiglie in cui tutto deve continuare come prima. C’è scarsa flessibilità dei ruoli e il posto vuoto deve essere riempito subito per non “indebolire” il sistema familiare.
5)Famiglie in cui la perdita può significare caos o rischio di disintegrazione.
6)Famiglie in cui tutto deve essere perfetto. Lottano contro i sentimenti primitivi e predomina la razionalizzazione.
7)Famiglie che funzionano con aperta e sincera condivisione di sentimenti. Tollerano sentimenti positivi e negativi, vivono l’intimità nelle relazioni interpersonali e condividono il distress. L’elaborazione del lutto procede bene attraverso l’attenzione e la consolazione reciproca.

R. Pereira (1999) descrive le tappe del lutto familiare e i compiti da svolgere:
1)    Accettazione della perdita, permettendo o favorendo l’espressione della tristezza in ogni membro della famiglia.
2)  Raggruppamento e chiusura della famiglia per permettere la sua riorganizzazione: ridistribuendo la comunicazione interna e i ruoli familiari.
3)         Riorganizzare la relazione col mondo esterno.
4)        Riaffermazione del sentimento di appartenenza al nuovo sistema familiare che emerge dal precedente e accettazione dell’ingresso in una nuova tappa del ciclo di vita familiare.
Affrontare un lutto è un’esperienza molto complessa ed importante per lo sviluppo individuale e familiare futuro. Avere difficoltà nel farlo è comprensibile e possibile ed in questi casi è di grande aiuto un sostegno psicologico.
L’obiettivo principale del lavoro terapeutico con il lutto è aiutare la famiglia a padroneggiare il proprio dolore, facendo sì che le persone si sentano abbastanza sicure da aprirsi, in modo che possano condividere i loro vissuti e darsi reciproco sostegno. Il terapeuta inoltre sostiene la famiglia nel difficile lavoro di accettare che il futuro che aveva immaginato deve essere riscritto alla luce del fatto che uno dei suoi protagonisti è venuto a mancare.
In altre parole il terapeuta crea una situazione che possa favorire l’emergere delle risorse della famiglia mettendola in grado di risolvere il dolore del lutto utilizzando i propri strumenti.
                                                                                         Dott.ssa Rita Manzo

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venerdì 29 giugno 2012

INVECCHIAMENTO E DEPRESSIONE

La terza età è spesso raffigurata come un tempo di riposo, di riflessione e opportunità di fare cose che erano state messe da parte in passato perché si era troppo impegnati a fare altro.
Purtroppo però, il processo di invecchiamento non è sempre così idilliaco.  Alcuni aspetti della vita che avvengono in questo periodo come  il declino fisico, il dover fare i conti con malattie croniche e debilitanti, la perdita di amici o di persone care e l'impossibilità di prendere parte ad  attività una volta care  può incidere fortemente sul benessere emotivo della persona che invecchia.
Un anziano può anche percepire una perdita di controllo sulla propria vita a causa della mancanza di vista, perdita dell'udito, e altri cambiamenti fisici, come pure le pressioni esterne, ad esempio risorse finanziarie limitate. Queste ed altre questioni spesso danno luogo ad emozioni negative come la tristezza, ansia, solitudine e bassa autostima, che possono a loro volta portare al ritiro sociale e all'apatia.

Depressione
Un’altra possibile conseguenza, più grave, della terza età è la depressione cronica, o una depressione che è ricorrente e persistente.  
La depressione cronica può avere delle conseguenze sia fisiche che mentali che possono complicare le condizioni di salute dell’anziano e generare nuove preoccupazioni.
Ci sono prove che alcuni cambiamenti naturali del corpo associati all'invecchiamento possono aumentare il rischio di depressione in un anziano. Recenti studi suggeriscono che basse concentrazioni di folato nel sangue e nel sistema nervoso possono contribuire alla depressione, insufficienza mentale e demenza. I ricercatori suppongono anche che ci possa essere un legame tra l'insorgenza nella tarda età della depressione e il morbo di Alzheimer. Indipendentemente dalle sue cause, la depressione può avere preoccupanti effetti fisici sulle persone anziane.  Programmi di trattamento per pazienti anziani depressi affetti da malattie cardiovascolari e altre malattie importanti di solito si prolungano per un tempo maggiore rispetto al normale  e hanno meno successo.
Inoltre sentimenti di disperazione e di isolamento, che spesso inducono a pensieri di suicidio, sono molto frequenti fra gli anziani, soprattutto quelli con disabilità o quelli chiusi nelle case di cura.

Un rischio per la vita quotidiana
La depressione può danneggiare la salute di un anziano anche in altri modi. Essa può portare ad abitudini alimentari sbagliate che provocano l'obesità o, al contrario, una significativa perdita di appetito e diminuiti livelli di energia, a volte causando una condizione nota come anoressia geriatrica.
Gli anziani con depressione hanno anche  un tasso più elevato di insonnia e perdita di memoria. Inoltre, rispetto agli anziani non depressi, essi hanno dei tempi di reazione più lunghi, ciò aumenta  i rischi associati a tutti i compiti che richiedono attenzione ad es. la guida.

Cosa si può fare
Mentre l'invecchiamento è una fase inevitabile della vita, la depressione non deve necessariamente essere parte di essa. I ricercatori concordano sul fatto che il riconoscimento precoce, la diagnosi e il suo trattamento possono contrastare e prevenire le conseguenze emotive e fisiche della depressione.
Ci sono alcuni aspetti da considerare per affrontare la depressione nella terza età di un proprio caro:
   Essere consapevoli delle limitazioni fisiche. Incoraggiare un anziano a consultare un medico prima di apportare cambiamenti alla dieta o di intraprendere una qualsiasi nuova attività che possa essere stressante per il fisico.
  Rispettare le preferenze individuali. Poichè le persone anziane tendono ad essere meno tolleranti ai cambiamenti dello stile di vita, possono essere riluttanti ad adottare nuove abitudini o fare cose che gli altri trovano molto divertenti. Uno psicologo può aiutare ad elaborare una strategia personalizzata per combattere la depressione.
     Avere tatto. Una persona anziana con una fragile autostima può interpretare un incoraggiamento fatto in buona fede come una ulteriore prova della sua condizione di invecchiamento. Altri possono risentire di ogni tentativo di intervento. Uno psicologo può aiutare familiari e amici a trovare degli approcci positivi per affrontare queste ed altre questioni sensibili relative all’anziano.

  Dott.ssa Rita Manzo
Psicologa, Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale
Santa Maria Capua Vetere (CE), Calvi Risorta (CE), Napoli (NA)
3333072104

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lunedì 18 giugno 2012

GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO: CON LA LUDOPATIA NON SI GIOCA!



La ludopatia, o gioco d’azzardo patologico (Gap) è una vera e propria malattia che comporta la dipendenza dal gioco d’azzardo. Si tratta di un disturbo psicologico nel controllare gli impulsi e coinvolge il 3% della popolazione adulta (Organizzazione mondiale della Sanità). 

Quando si parla di gioco d’azzardo non ci si riferisce solo ai giochi da casinò come la roulette o il blackjack ma a qualsiasi gioco che implichi una scommessa come ad esempio le scommesse sportive, i giochi online, le lotterie, il bingo, il lotto, il Superenalotto, le slot machine, i “gratta e vinci”.
Per molte persone il gioco d’azzardo è un “luogo” di rifugio, “un’ occasione per costruire una realtà parallela e alternativa alla realtà quotidiana; un luogo mentale, ma anche un luogo dalle precise dimensioni spazio-temporali, in cui rifugiarsi per sentirsi liberi dai vincoli della vita quotidiana, dalle fatiche, dai principi di realtà, la possibilità  di inventare il proprio futuro, di immaginarlo diverso, più ricco, più felice; è lo spazio immaginario in cui poter creare il mondo che si desidera” (G. Lavanco, L. Varveri, 2006).
Ma giocare d’azzardo può anche diventare un tunnel  con dei prezzi altissimi da pagare, sia a livello individuale che  sociale. Ciò succede quando il giocatore compie il breve passo dal gioco occasionale al gioco abituale, quindi al gioco problematico e poi a quello patologico.

Sono tre i criteri fondamentali che contraddistinguono il gioco d’azzardo:

- si scommettono denaro o altri oggetti di valore

- la posta, una volta piazzata, non può essere ritirata

- il risultato del gioco è basato sul caso.



Secondo il manuale DSM-IV il gioco d’azzardo patologico è caratterizzato da un comportamento ricorrente e maladattivo tale da compromettere le attività personali, familiari e lavorative del soggetto.
Tra i criteri diagnostici ritroviamo i seguenti:
1.   Il soggetto è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (per es., rivive esperienze passate di gioco d’azzardo, valuta o programma la successiva avventura, o pensa ai modi per procurarsi denaro con cui giocare).
2.   Ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata.
3.   Ha ripetutamente tentato senza successo di controllare, ridurre, o interrompere il gioco d’azzardo.
4.   È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo.
5.   Gioca d’azzardo per sfuggire i problemi o per alleviare un umore disforico (es. sentimenti di onnipotenza, colpa, ansia, depressione).
6.   Dopo aver perso al gioco spesso ritorna i giorni successivi per giocare ancora (rincorrendo le proprie perdite).
7.   Mente ai membri della propria famiglia , al terapeuta, o ad altri per occultare l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo.
8.   Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo.
9.   Fa affidamento su altri per reperire il denaro per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco d’azzardo.
10. ll comportamento di gioco d’azzardo non è meglio attribuibile ad un Episodio Maniacale.
Se il soggetto presenta almeno cinque di questi sintomi, viene diagnosticato un quadro di gioco d’azzardo patologico ( DSM IV, 1994).


Il ludopata sente un irrefrenabile bisogno di giocare, un'ossessione per il gioco  che comporta continui cambiamenti di umore, passando da un'euforia eccessiva a repentine crisi depressive. Se non riesce a giocare diventa inquieto e irritabile e, proprio come per i tossicodipendenti, può avere delle crisi di astinenza caratterizzate dall’insorgere di tremore diffuso, nausea,  mal di testa. Si tratta di una vera e propria “dipendenza senza sostanze”, che si concretizza nel forte desiderio di provare emozioni legate al gioco e alla scommessa. Il gioco d’azzardo da anche assuefazione, il soggetto fa puntate sempre più alte o più frequenti per continuare a provare le stesse emozioni. Il gioco è un modo per evadere dai problemi o per migliorare lo stato d’animo.

Con il tempo il soggetto colpito da “ludopatia” comincia a contrarre debiti e non riesce più a controllare né i soldi persi con le scommesse, né la quantità del tempo trascorso a giocare. 
Il ludopata non riesce a diminuire o smettere di giocare, nonostante ci provi veramente e quando perde cerca sempre una rivincita finché non riesce a vincere. 
Ricorre alla famiglia, agli amici o ad altre persone per farsi prestare i soldi che ha perso al gioco ma li rigioca e, talvolta, commette azioni illegali allo scopo di ottenere soldi per giocare o recuperare quanto ha perso.

Spesso mente alla famiglia, agli amici o agli psicologi per nascondere quanto denaro ha perso al gioco. Mette a repentaglio i legami che ha instaurato nel corso della sua vita, continua a giocare sapendo che può perdere una relazione di coppia, il lavoro o qualsiasi altra cosa importante.
Nella maggior parte dei casi queste persone non si rendono conto di avere un problema, fino a quando cominciano a perdere il lavoro e gli affetti familiari. Solo allora si decidono a chiedere aiuto per uscire fuori dal tunnel in cui sono entrati.
I giocatori d’azzardo in genere sono persone insicure, insoddisfatte della vita che conducono ed inclini a problemi psicologici come la depressione. E’ stata segnalata l’elevata incidenza di sintomi depressivi in soggetti che presentano una dipendenza da gioco d’azzardo. 
Una buona percentuale di soggetti con gioco d’azzardo patologico riporta una ideazione suicidaria e si ritiene che alcuni di essi abbiano tentato almeno una volta il suicidio. Non è ancora del tutto chiaro se la depressione sia una conseguenza della dipendenza da gioco d’azzardo o se il giocatore patologico soffra di un disturbo depressivo. Si tratta di individui che non riescono ad esprimere i propri sentimenti e di solito mascherano la loro insicurezza dietro una facciata aggressiva, competitiva e spesso euforica.

Trattamento del gioco d’azzardo patologico

Le tecniche utilizzate nella terapia del gioco d’azzardo coinvolgono la psico-educazione, le terapie individuali, di gruppo e familiari. La guarigione richiede tempi abbastanza lunghi. Durante il percorso molta attenzione va posta al superare il diniego del paziente e allo sviluppo della motivazione all’astinenza. Si aiuta il soggetto ad affrontare il problema, uscendo dallo stato di dipendenza in cui si trova. I programmi di recupero vengono personalizzati e talvolta svolti in equipe.


                        Dott.ssa Rita Manzo

lunedì 11 giugno 2012

BASSA AUTOSTIMA: COME POSSO ACCETTARMI DI PIÙ?

I problemi legati all’autostima nascono da una discrepanza tra il sé ideale ed il sé percepito. Il sé ideale è rappresentato da ciò che desideriamo essere. Il sé percepito è dato dalla percezione che abbiamo di noi stessi. A tutti noi è capitato in passato di desiderare di possedere una certa qualità vista in un’altra persona, o di essere capaci di fare qualcosa. Fino ad un certo punto ciò rientra nella normalità, ma diventa eccessivo e quindi un problema quando la persona si rassegna al fatto che non sarà mai come vorrebbe essere. Smettendo di lavorare e lottare per migliorarsi si finisce per peggiorare, o semplicemente per rimanere ciò che si è per tutta la vita. Migliorare l'autostima è possibile e richiede un impegno costante nel tempo. E’ possibile lavorare su alcuni aspetti per costruire l'autostima e la fiducia in se stessi e per imparare ad accettarsi di più.
Innanzitutto bisogna lavorare sulle proprie percezioni. Solitamente la persona con bassa autostima tende a vedere gli altri migliori di sé poiché dirige l’attenzione sulle qualità positive che gli altri possiedono e che lei invece non ha, non considerando tutte le altre qualità positive che possiede, ed uscendo quindi dal confronto sempre perdente. L’altro agli occhi di una persona con bassa autostima è sempre più bello, più competente, più simpatico! Bisogna ricordare, però, che nessuno è perfetto, tutti hanno dei pregi e dei difetti, quindi ogni volta che fate un paragone sfavorevole con qualcun altro, cercate di notare un difetto che l'altra persona ha e che voi non avete. Questo vi permetterà di conoscervi meglio e di imparare ad apprezzare maggiormente le vostre qualità focalizzando l'attenzione non solo sugli aspetti negativi, ma anche e soprattutto su quelli positivi.
Un’altra cosa da tenere in considerazione è che solitamente chi non si apprezza per quello che è tende a dare agli altri un’immagine diversa di sé, a indossare una “maschera” per paura di non piacere e dunque di essere rifiutato. Non c’è niente di male nel voler fare una buona impressione, soprattutto a lavoro o quando si incontra una persona per la prima volta, purchè non si stravolga completamente la natura della persona. Ma con gli  amici e la famiglia bisogna lasciarsi andare e mostrarsi per quello che si è veramente. Se sentiamo che gli altri ci apprezzano nonostante le nostre debolezze, anche noi ci apprezzeremo di più.
Nella vita fate quello che più vi rende realizzati e non ciò che potrebbe far piacere a qualcun altro, o ciò che gli altri si aspettano da voi. Se avete la sensazione di non essere assolutamente in grado di fare una determinata cosa mettetela da parte momentaneamente e concentratevi su qualcos'altro che siete capaci di fare. 
Non ponetevi degli obiettivi troppo difficili da raggiungere. Essi vanno calibrati in funzione delle proprie caratteristiche e capacità reali. È inutile e dannoso volere a tutti i costi qualcosa che al momento non siamo in grado di avere. Molto meglio prendere una nostra qualità positiva, seppur piccola, e cercare di sfruttarla al massimo, pensando a tutte le cose che potremmo ottenere sviluppandola a fondo.
Tutti abbiamo la capacità di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati, a patto che siano realistici e scaturiscano dalla consapevolezza delle proprie potenzialità, non da desideri altrui o scelte ideali. Se partiamo da piccoli obiettivi col tempo saremo in grado di realizzare anche quelli più complessi che all’inizio ci sembravano impossibili da raggiungere. 
                                                      Dott.ssa Rita Manzo

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martedì 5 giugno 2012

STRESS: UNA CAUSA DEL CANCRO?



Non c'è modo di sfuggire allo stress, fa parte della nostra vita e può avere un impatto sulla nostra salute fisica e psicologica. I ricercatori stanno cercando di determinare se lo stress è anche un fattore determinante  per lo sviluppo del cancro. Attualmente, non vi è alcuna prova certa del fatto che lo stress sia una causa diretta del cancro. Ma sono molti gli studi che dimostrano comunque un legame tra stress e sviluppo di alcuni tipi di cancro, e tra stress e progressione della malattia. Centinaia di studi hanno valutato come lo stress influisce sul nostro sistema immunitario.  
Il dottor Barry Spiegel,  un leader nel campo della medicina psicosomatica, ha scoperto che pazienti con carcinoma metastatico della mammella in media vivono più a lungo quando partecipano a gruppi di sostegno. Altri studi hanno mostrato che le donne che hanno vissuto eventi di vita traumatici o perdite negli anni precedenti hanno mostrato tassi significativamente più elevati di cancro al seno. Gli studiosi del National Cancer Institute affermano che "Anche se alcuni studi hanno dimostrato che i fattori di stress, come la morte di un coniuge, l'isolamento sociale, modificano il funzionamento del sistema immunitario, non ci sono prove scientifiche di una causa-effetto diretta tra i cambiamenti del sistema immunitario e lo sviluppo del cancro." 
Tuttavia, altri studiosi sostengono che il legame tra cancro e stress sta nel fatto che se lo stress riduce la capacità dell'organismo di combattere le malattie, l’organismo perde la capacità di uccidere le cellule tumorali. Ogni giorno, i nostri corpi sono esposti ad agenti cancerogeni nel cibo, nell'acqua, nell’ambiente. In genere, il nostro sistema immunitario riconosce le cellule anomale e le uccide prima che esse possano produrre un tumore. 
Ci sono tre cose importanti che possono accadere per prevenire lo sviluppo del cancro: il sistema immunitario può impedire agli agenti patogeni di invadere il corpo, il DNA danneggiato viene riparato dalle cellule, le cellule T killer sono in grado di riconoscere ed uccidere le cellule tumorali. Le ricerche hanno dimostrato che lo stress può ridurre la capacità del corpo di fare ognuna di queste cose.
Ciò non vuol dire necessariamente che c'è un legame diretto tra lo stress e il rischio di sviluppare un tumore. Lo stress non può, in sé stesso, essere considerato come unica causa di un cancro. L'origine di tale malattia appare sempre più multifattoriale (associazione di vari fattori legati ambientali legati allo stile di vita e genetici). 

Lo stress  potrebbe aumentare il rischio di cancro per il fatto che accompagna determinati comportamenti che espongono ad agenti cancerogeni e/o potenzialmente nocivi per la salute: tabagismo, consumo d'alcol eccessivo, alimentazione squilibrata, mancanza di attività fisica... Dunque, quando le persone sono sotto pressione fanno scelte sbagliate: fumano, smettono di fare esercizio fisico, iniziano a mangiare cibi malsani ecc. … questi sono tutti  fattori connessi al cancro.
Ci deve essere la compresenza di molti fattori per favorire lo sviluppo di un tumore; lo stress è uno dei tanti fattori che contribuisce ad abbassare il sistema immunitario e quindi ci rende più suscettibili al cancro e ad una progressione più rapida della malattia. Ma lo stress potrebbe essere solo un pezzo del puzzle. Tuttavia, è importante sottolineare che indipendentemente   da quale potrebbe essere la sua influenza, è pur sempre una percentuale che possiamo controllare. 

Certamente non siamo in grado di controllare la genetica, ma possiamo cambiare il modo in cui rispondiamo allo stress. Sappiamo che lo stress può avere un impatto negativo sulla nostra salute. La chiave non sta nell’eliminare tutte le pressioni della vita, ma nel modo in cui le si gestisce su base giornaliera. E’ possibile imparare a gestire lo stress attraverso l’adozione di uno stile di vita più sano, un sostegno psicologico o un percorso psicoterapico per migliorare la qualità di vita e diminuire le complicazioni psicopatologiche.



                                                         Dott.ssa Rita Manzo

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